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Stefano Ruaro, l’Ironman vicentino che sfida il Parkinson

Stefano Ruaro Parkinson

Stefano Ruaro, 58enne imprenditore vicentino, da qualche anno ha trasformato la sua passione per lo sport in uno strumento per superare il Parkinson da cui è affetto

A settembre Stefano Ruaro sarà il primo malato di Parkinson ad affrontare un Ironman, prova che consiste in un percorso di 3,8 chilometri di nuoto seguiti da 180 di bicicletta e 42 di corsa. Da sempre giocatore di calcio, nel 2016 scopre il triathlon e già nel 2019 completa un mezzo Ironman.

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Una prova durissima, per atleti allenati. E lui, a settembre, vuole affrontarla. «Il mio obiettivo – racconta a Il Giornale di Vicenza – non è tanto essere il primo a farlo, ma non essere l’ultimo. Il risultato non conta, sarebbe già importante arrivare restando nelle 17 ore, il tempo limite, perché è una gara durissima, per la quale ce la sto mettendo tutta, con un team che mi sostiene».

«Nel 2016 ho scoperto il triathlon». Ma il destino aveva altri piani

Lo sport per Stefano è sempre stato importante: «Fino a 35 anni ho giocato a calcio a Schio e Marano. Poi mi sono ritirato per infortunio e mi sono dato alla mountain bike. Nel 2016 ho scoperto il triathlon e nel 2019 sono arrivato a completare un mezzo ironman». Ma il destino aveva altri piani. Prima il Covid e le chiusure. Poi la dura diagnosi della malattia.

«Avevo disturbi strani, per i quali mi ero sottoposto a una serie di indagini»

«Già prima mi rendevo conto che le mie prestazioni non erano più le stesse e avevo disturbi strani, per i quali mi ero sottoposto a una serie di indagini. A un certo punto ho capito che probabilmente stavo sbagliando medico e che il problema, probabilmente, non era nel fisico. Sono andato dal neurologo e lui ha intuito di cosa si trattava. È stato un colpo da ko. Mi sono visto finito ed è stata dura da digerire, anche se ho una famiglia molto unita, che mi è stata vicina. Non riuscivo a rassegnarmi all’idea di dover vedere un declino più rapido del normale. Ne ho parlato con pochissime persone, ma le pacche sulle spalle le vedevo come un gesto di compassione e menefreghismo, anche se in realtà volevano darmi una mano».

Poi la svolta. «Chi me l’ha data era malato e da lì ho capito che se ce l’aveva fatta lui dovevo farcela anch’io. Mi ha fatto comprendere che ero comunque fortunato, perché ero vivo, e che dovevo tirarmi su le maniche e ricominciare a vivere. Da lì è partita la voglia di fare tutto quello che sto portando avanti oggi, che non è tanto il triathlon o l’ironman, ma far crescere il progetto Indomitry, gli “indomiti del triathlon”. Che vuole scuotere le persone e far capire che chi ha un problema non si deve arrendere, ma tirare fuori le unghie. A volte non basta un consiglio o una buona parola da parte di chi è vicino, ma serve un esempio concreto».

La redazione

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